Gli Stati Uniti hanno costruito la loro potenza economica dopo la Prima Guerra Mondiale ed ancora di più dopo la Seconda. Nel terrificante panorama di distruzione che la fine della guerra lasciò, l’intatta capacità produttiva americana ebbe un ruolo fondamentale nella ricostruzione dell’Europa e del Giappone.
Gli Usa diventarono formidabili esportatori di manufatti e la richiesta dei prodotti “made in USA” era senza fine. Le fabbriche ed i lavoratori americani non riuscivano a soddisfare le richieste di export. Il tenore di vita pro-capite crebbe in pochissimo tempo, e la “way of life” americana divenne ben presto il sogno ed il mito per molta parte dei paesi occidentali.
L’economia americana godeva i benefici di un enorme surplus commerciale: esportavano molto di più di ciò che importavano, ed il dollaro (anche grazie agli accordi di Bretton Woods) divenne la moneta di riferimento mondiale. Recentemente, nel 2010, con l’introduzione dello SWIFT (Society for Worldwide Interbank Financial Telecomunication), il controllo di tutte le transazioni e del commercio è ancor più sotto l’egemonia di New York e Londra.
Oggi tutto questo è profondamente cambiato; gli Usa non sono più i grandi creditori del pianeta e la loro bilancia commerciale registra in molti settori un enorme passivo, tanto che il loro deficit ha raggiunto la sbalorditiva cifra di 3 Trilioni di dollari. Il dollaro americano è ancora la moneta di riferimento mondiale, ma questo potrebbe, in un futuro non lontano, essere un limite più che un vantaggio.
La Cina è il cambiamento epocale di questi ultimi 40 anni. Si è sostituita in molti settori agli Usa come fabbrica per il mondo. E questo sta creando l’allarme americano e la paura che l’indiscussa egemonia cinese nel settore economico possa scalzare quella americana. Ed è per questo che da qualche anno nei corridoi di Washington rimbombano le parole: Decoupling, Derisking, Friendshoring.
Che si traducono poi in ordini operativi per le cancellerie europee, giapponesi e australiane. Ed in questi mesi abbiamo assistito a proclami dei nostri politici che annunciavano misure protezionistiche contro i prodotti cinesi, che per l’Italia ha anche significato l’abbandono degli accordi della via della seta stipulati da Giuseppe Conte.
Ma sono tutti d’accordo su questa politica della “conventio ad excludendum? In massima parte no ed a buon diritto.
L’interconnettività con l’industria cinese è ormai così profonda che separarsi da essa avrebbe delle ripercussioni economiche notevoli. Ed ecco perché molto spesso le imprese semplicemente ignorano questi proclami politici che rimangono in alcuni casi lettera morta. Questo infastidisce non poco gli Americani che ormai hanno abbandonato la “soft power” di un tempo per convincere con le buone gli “alleati” e senza troppi complimenti usano il pugno di ferro per assicurarsi l’obbedienza.
L’amministrazione Biden ha affermato di voler sanzionare compagnie come la Tokyo Electron Ltd o la ASML olandese se continueranno ad avere scambi con la Cina nel settore strategico dei semiconduttori. Secondo la legge americana se un prodotto contiene anche una minima parte costruita in America, ne può essere proibita la vendita.
Solo che, se si osserva il giro di affari della ASML ci si rende immediatamente conto della perdita enorme che tale compagnia dovrebbe sopportare se tali imposizioni fossero seguite alla lettera. Inoltre, questa dura regola potrebbe spingere le imprese europee a non utilizzare in alcun modo parti prodotte negli Usa con il risultato di aggravare ancora di più la produzione statunitense e deprimere ulteriormente il mercato del lavoro.
Anche negli Usa stessi piovono richieste da parte delle industrie di deroghe alle limitazioni che il governo americano ha imposto sul commercio con la Cina, ed è curioso notare che la capofila tra queste è il Ministero difesa americano, che per mandare avanti la sua poderosa macchina bellica necessita senza alcuna interruzione di componentistica costruita in Cina.
In sostanza in America e tra gli alleati queste restrizioni sono percepite come non giuste e che in ultimo, penalizzino di più le industrie e i consumatori che non i cinesi stessi contro cui queste sanzioni dovrebbero avere effetti.
La Cina dal canto suo sta procedendo a ritmi di crescita ancora molto sostenuti ed in alcuni settori è il leader mondiale.
Ad esempio, come costruttrice di navi: il 53,58% della produzione di nuove navi è cinese, seguita dalla Corea del sud con il 28,38% ed il Giappone in terza posizione con l’11,55%. Altri Paesi insieme formano il 6,38% ed infine gli USA con lo 0,11%. Cioè, gli Stati Uniti hanno perso completamente questo cruciale settore produttivo. Desertificato.
Dobbiamo tener presente, come ci ricorda Richard Wolf, Professore di economia e compagno di banco a Yale con Janet Yellen durante il loro PhD, che le tariffe applicate ai prodotti cinesi altro non sono che tasse sui contribuenti che acquisteranno il bene ad un prezzo più alto. E se i dazi dovessero chiudere completamente il mercato non sarebbe detto che gli esclusi siano proprio i cinesi.
Prendiamo ad esempio il colosso americano dei macchinari agricoli, John Deere, che occupa una grossa fetta del mercato americano ed europeo, mercato nel quale i macchinari cinesi non hanno accesso a causa delle forti restrizioni; ebbene Deere sta perdendo enormi fette di mercato a favore dei macchinari cinesi che stanno dilagando nel resto del mercato mondiale, grazie alla loro affidabilità ed economicità. E dunque tutto dipende dalla grandezza del mercato ed in quale noi ci confiniamo. Potremmo avere la brutta sorpresa di essere nella fetta più piccola.
A volte le analisi anche di rispettabili e importanti società si rivelano fallaci e possono trarre in inganno una politica non attenta e facilona ad appassionarsi a slogan poco rispondenti alle esigenze domestiche.
Kevin Walmsley di “Inside China Business”, riporta la storia della produzione di magneti in Cina; componente essenziale in molti settori ma soprattutto in quello dei veicoli elettrici. Ebbene un rapporto di quattro anni fa certificava che la Cina si sarebbe trovata ad una strettoia produttiva di tali materiali, cosa che oggi si è registrato non essere vero grazie alla pianificazione ed alle sinergie tra governo ed enti periferici.
Lo stesso avviene per la produzione di chips, i semiconduttori che sono ormai diventati il nuovo oro nero. Il piano lanciato nel 2015 ha l’obiettivo di produrre entro il 2025 il 70% dei chips che il mercato cinese richiede. Da allora il governo cinese ha investito oltre 150 miliardi nel settore. Ed i risultati si cominciano a vedere.
Torniamo dunque al dollaro. Chi afferma che il dollaro perderà l’egemonia sul mercato mondiale è fuori dalla realtà. Ma chi dice che la Cina e molti altri Paesi stanno usando monete diverse per il loro commercio dice il vero. Non vi è solo l’Arabia Saudita che ha deciso di vendere il suo petrolio alla Cina in RMB (renminbi, la divisa cinese), molto pubblicizzata anche dalla stampa occidentale ma categorizzato questo come un fatto isolato. Al contrario non lo è.
Il Brasile, il Cile, il Venezuela, la Russia per nominarne solo alcuni, optano nei loro scambi di trattare direttamente le compravendite bypassando lo SWIFT. New York non ci guadagna, determinati scambi rimangono sottotraccia(privacy), ed il tutto avviene molto rapidamente. Ormai tonnellate di merci partono dai porti cinesi senza che vi sia un riscontro nella galassia dollaro. Ed anche l’Africa sta entrando in questa nuova holding del commercio, a cominciare dal Sud Africa.
La crescita della Cina continua, anche se a macchia di leopardo. Lo sforzo del Governo è quello di spostare attraverso piani specifici la produzione industriale dalle coste verso l’interno più povero, cercando così di bilanciare la crescita ed il reddito pro-capite. Anche regioni povere potranno aspirare a migliorare la loro condizione.
La famosa regola del 72 si applica: t= 72: r, dove T è il tempo necessario per raddoppiare l’investimento e R la crescita in percentuale. Dunque, anche una regione povera come Hainan dove il reddito annuo a persona è inferiore a 10.000 dollari avendo una crescita del 9% può aspirare a raddoppiare il suo reddito in 8 anni. Ed è per questo che chi ritorna in Cina a distanza di pochi anni vede dei cambiamenti epocali.
In buona sostanza sembra che la politica voluta fortemente dagli Stati Uniti ed imposta agli europei non sia quella più idonea agli interessi dei lavoratori, dei consumatori, della crescita industriale, del progresso tecnologico e dell’ottimizzazione delle risorse.
Ma tutto questo passa in secondo ordine quando si tratta di conservare l’egemonia mondiale.
Luca Anedda è nato a Cagliari il 24 Dicembre 1958.
Ha conseguito la Maturità Scientifica presso la Scuola Militare Nunziatella negli anni 1973-1977.
Entrato in Accademia Aeronautica con il Corso Turbine 3, ha conseguito il brevetto di pilota militare negli Stati Uniti (Columbus A.F.B. Mississippi), al termine del quale è inviato a frequentare il corso di “Fighter Lead in Training” presso la Base Aerea di Holloman in New Mexico (U.S.A.). Successivamente viene assegnato al 5to Stormo di Rimini dove consegue la “Combat Readiness” su velivolo F104 come pilota Caccia intercettore. Dopo aver frequentato la Scuola di Guerra Aerea di Firenze con il grado di Capitano, viene promosso Maggiore ed inviato come Istruttore presso la scuola di volo NATO di Sheppard A.F.B. negli Stati Uniti, dove ricopre vari incarichi di rilievo.
Rientrato in Italia con il grado di Tenente Colonnello, nel 1994 ricopre prima il ruolo di Capo Ufficio Operazioni del 5to Stormo di Rimini, e successivamente quello di Comandante del 23mo Gruppo Caccia Intercettori.
Nel 1996 entra in Alitalia e diventa Comandante su Velivolo MD80. In Alitalia ricopre anche il ruolo di Quality safety Auditor e svolge numerose audit presso Compagnie come Air China, Kenia Airways.
Laureato in Scienze Aeronautiche, è diventato consulente presso G.E.D.A. società di aviazione e consulenza nel settore sia di ala fissa che rotante.
Attualmente risiede in Inghilterra ed è Comandante esaminatore di volo presso Stobart air.
Ha al suo attivo oltre 16.000 ore di volo di cui 3.000 su velivoli militari.
Sposato con Tiziana, ha tre figli: Gabriella, Alessio e Isabella.