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I doni imperiali dello zar a Napoli

Napoli – L’ensemble del barone Peter von Klodt Domatori di cavalli” davanti al palazzo reale di Napoli ogni anno diventa sempre più famoso. Spesso delle statue però scrivono anche ripetendo una serie di idee sbagliate. La verità è che l’opera non è una copia dei domatori di San Pietroburgo, però neanche l’originale

La storia non è facile. Per prima cosa Klodt fuse una coppia di bronzo dei gemelli Dioscuri per la Prospettiva Nevsky, più precisamente per il ponte Anichkov attraverso la Fontanka (il canale, affluente del fiume Neva). Un’altra coppia provvisoria poi fu scolpita da un gesso colorato di bronzo. Un po’ più tardi, fecero un secondo getto di bronzo in cambio del gesso, ma non la misero sulla Nevsky: l’imperatore la mandò a Berlino, come regalo al suo cognato prussiano. Lo scultore fece pazientemente un nuovo (il terzo getto), che rimase per circa un anno a San Pietroburgo. Nel 1845, lo zar russo stava per partire per Napoli e ordinò di prendere le statue e inviarle al re napoletano via mare, attraverso l’Oceano Atlantico. La delicata navigazione per il trasporto (fu necessario portare l’opera di bronzo all’arrivo di Nicola I) fu affidata ad un capitano dell’isola di Procida, noto per le sue tradizioni marine. Il Ponte Anichkov era di nuovo orfano dei cavalli, o meglio il gesso già assai difettoso quando Klodt, come persona creativa, si oppose a fare ancora una copia: se prima erano due coppie di gemelli, ora fece un Domatore che cade, si alza, doma cavallo e lo guida, già ferrato. Le circostanze della donazione al re Ferdinando II sono disposte su due targhe commemorative, montate su piedistalli: il testo è scritto in italiano e in latino (sarebbe bello sottoscrivere una traduzione russa da qualche parte). I cavalli russi a Napoli furono solennemente inaugurati un anno dopo la visita dell’imperatore, nel dicembre 1846, il giorno di San Nicola. Nel 2002, l’opera è stata poi restaurata con successiva inaugurazione.

Ritratto di prestigio

Negli anni 40 dell’Ottocento, Napoli di fronte alle “confusioni” europee, guardò con speranza e ammirazione verso San Pietroburgo. Ferdinando II copiava in modo maestro il tipo di governo paternalistico di Nicola I: l’impero settentrionale gli sembrava un modello di stato giusto, dove non c’è posto per il libero pensiero, l’ateismo e la dissolutezza. I cavalli della prospettiva Nevskij in modo visibile, pubblico, dimostrarono l’unione tra i due monarchi. Ma il re napoletano desiderava dare una conferma ulteriore della sua amicizia con lo zar. Due anni dopo l’installazione di sculture, ordinò un pittoresco ritratto dello zar Nicola.  Il quadro fu messo tra gli altri ritratti di persone note e posizionato nei grandi appartamenti del Palazzo Reale. La storia del percorso del ritratto è la seguente: fu acquistato a Parigi, consegnato via terra a Marsiglia, e da lì via mare, a Napoli. E’ noto che il re l’aveva pagato 700 franchi. Però non si sa chi sia l’autore del ritratto. Nei documenti d’archivio, a cui si riferisce la critica d’arte Lucia Tonini, figura Hawinsky. Ma non era questo artista, anche se per molto tempo si è creduto che questo fosse il cognome distorto di Ajvazovskij. Proprio come l’opera di Ajvazovskij che mi hanno mostrato dieci anni fa i collaboratori della Reggia di Caserta, dove questo ritratto era appeso nel loro ufficio. La trama ricordava i tempi sovietici: da una parte è scomodo mettere lo zar reazionario nell’esposizione principale e dall’altra parte è un peccato posizionare un bel quadro nel fondo del palazzo come fosse di seconadaria importanza e così decisero di lasciarlo in ufficio. Ora il ritratto ha preso nuovamente il suo posto nel palazzo reale di Napoli, nella sala XIV secolo. La sua precedente posizione di prestigio negli appartamenti principali rispecchiato nell’acquerello del pittore Lorenzo Starita. Il quadro mostra anche due vasi cinesi, modificati come lampade , che sono un altro regalo proveniente da San Pietroburgo.

Viste da Mosca

Nicola I nella sua visita napoletana portò, oltre ai cavalli un certo numero di piccoli doni. Oltre due vasi cinesi conservati, l’imperatore regalò due costruzioni originali, dei piani per buffet con fiori e gabbie dorate per uccelli. I piani dei buffet erano fatti con strati di porcellana con dipinti specifici presso la fabbrica porcellana imperiale. Purtroppo questi oggetti rari danneggiate durante i bombardamenti degli alleati del palazzo alla fine del 1943. E ora i resti sono esposti con un’etichetta imprecisa “Viste di Mosca” in un’esposizione permanente. Sui tre pezzi rimasti, Mosca è raffigurata solo su uno con l’immagine del Palazzo di Pietro che nella letteratura speciale è erroneamente attribuito a Tsaritsyno (Caricyno). In un altro resto è raffigurato il campo di Borodino con i monumenti, la gloria della Russia, in cui lo zar volle ricordare a Napoli. Il terzo è la Casa del tè a San Pietroburgo. C’erano più resti, ma non tutti furono salvati. Tutti questi doni servivano come garanzia per l’amicizia degli autocrati. Infatti, quando nel 1853 l’Europa occidentale fece una crociata contro la Russia (la guerra di Crimea, all’epoca chiamata Guerra d’Oriente,  un conflitto durato dal 4 ottobre 1853 al 1º febbraio 1856, fra l’Impero russo da un lato e un’alleanza composta da Impero ottomanoFranciaGran Bretagna e Regno di Sardegna dall’altro ), il re napoletano, nonostante le pressioni diplomatiche, non si unì ad esso, a differenza del re piemontese (in quel periodo ufficialmente sardo). Ferdinando non visse a lungo dopo il suo mito Nicola, morì nel 1859. Suo figlio Franceschiello non mantenne la pesante corona e un anno dopo l’enorme regno scomparì. Alessandro II guardò indifferentemente la caduta del suo sfortunato “amico del Sud“. Le relazioni politiche russo-napoletane, il cui picco si ebbe a metà del XIX secolo e si espresse in una serie di artefatti, caddero in rovina. Ma grazie a Dio Napoli ha molto da offrire oltre alla politica.

Michael Talalay

 

Articolo in lingua originale russa

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