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DISTRETTO CALZATURIERO MARCHIGIANO IN CRISI: CALA ANCHE L’EXPORT VERSO LA RUSSIA

Ormai la richiesta di stato di crisi del settore calzature nelle Marche è sul tavolo del MiseIl territorio italiano a più elevato tasso di produzione calzaturiera ha richiesto il riconoscimento di area di crisi complessa per affrontare con tutti i mezzi necessari, ordinari e straordinari, una situazione sempre più difficile. Lo si apprende da una inchiesta realizzata da “Milano Finanza“.

Ci attendiamo che sia esaminata a giorni“, spiega Giuseppe Tosi – direttore della nuova Confindustria centro Adriatico, frutto dell’unione tra le territoriali di Ascoli Piceno e Fermo – abbiamo almeno una decina di criticità aperte, tre anni fa toccava alle piccole imprese, ora è la volta delle grandi. Si parla di ristrutturazioni, tagli occupazionali, concordati e cessazioni d’impresa”.

E non vale solo per Ascoli e Fermo. Da Ancona in giù, l’industria più fiorente e diffusa della regione, con 1.544 aziende e quasi 20 mila addetti rilevati a fine 2017 da Confindustria moda, è stata colpita da un’ondata negativa che ricorda le staffilate di bora in arrivo dall’Adriatico nelle giornate invernali. L’origine del resto è la stessa del vento: proviene dalla Russia. L’export verso Mosca, prima destinazione delle scarpe marchigiane fino al 2013, si è più che dimezzato dopo l’adozione delle sanzioni che non colpiscono direttamente la categoria di prodotto, ma le calzature sono state inevitabilmente coinvolte con l’aggravante della svalutazione del rublo sull’euro. Nel giro di sei mesi, i produttori marchigiani sono finiti fuori mercato.

Se nel 2017 la situazione era parzialmente migliorata, nel primo trimestre 2018 è tornata a soffiare la bora: -7% l’export nazionale in area Csi, -10% quello diretto in Russia. “Per tutti è stata una batosta – ha spiegato Arturo Venanzi, consigliere di Assocalzaturifici con delega all’area russa e direttore commerciale del calzaturificio Franceschetti di Montegranaro (Fermo) – dovuta in parte a un nuovo calo del rublo, in parte alle tensioni internazionali, in parte al cambiamento dei trend di consumo. Guardando in avanti, non ci sono segni di recupero e la situazione rischia di peggiorare ancora, stando all’andamento negativo di sell out dell’attuale collezione estiva in Russia.

Purtroppo non c’è solo la Russia a rendere la vita difficile ai produttori marchigiani. L’altro mercato di riferimento era quello domestico, paralizzato dal 2008 e già causa di vari dissesti societari. I calzaturieri hanno cercato di riallacciare i rapporti con la clientela tedesca e nordeuropea, ma oggi chi esporta in quei paesi nota un evidente ritardo nei tempi di pagamento. A confermarlo è Giampietro Melchiorri, a capo di Galmen e presidente vicario di Confindustria centro Adriatico: “Un tempo i clienti tedeschi erano puntualissimi, oggi quando va bene pagano a 60-90 giorni”. Da aggredire ci sarebbero i mercati asiatici e gli Stati Uniti, ma qui entra in gioco l’altro nervo scoperto del sistema calzature made in Marche: le dimensioni ridotte non consentono a queste imprese di operare ad ampio raggio. Si tratta di piccole e medie aziende che negli anni migliori, quelli del boom in Russia, esportavano scarpe di qualità, fatte in Italia, con marchio proprio. Entrata in crisi la Russia, venuto meno il mercato interno, la ricerca di collaborazioni con brand di lusso è stato un passaggio inevitabile per salvare i conti ed evitare di chiudere. “Il nostro distretto è specializzato nella scarpa formale, con fondo in cuoio – ha sottolineato Venanzi  – e la Russia costituiva un mercato fondamentale per noi, difficilmente sostituibile. Come facciamo a vendere scarpe formali a un millennials occidentale che in vita sua ha calzato solo sneakers?”.

Il punto ora è capire quali contromosse prendere. Lo status di area di crisi complessa, qualora riconosciuto dal Mise, consentirebbe di accedere a risorse regionali e statali per incentivi territorialmente localizzati: si parla di interventi di sostegno per l’internazionalizzazione, la formazione e le reti d’impresa. C’è poi un dossier collegato per la riduzione del costo del lavoro nelle fasi di taglio e orlatura, le più labour intensive del ciclo calzaturiero. “Abbiamo chiesto una decurtazione del 25%, sufficiente per diventare concorrenziali e poter creare nuovi posti di lavoro in un ambito che è stato quasi totalmente delocalizzato, con grave danno per la sopravvivenza di una filiera completa nella nostra regione“, ha raccontato Enrico Ciccola, imprenditore della Romit e presidente della sezione calzaturiera di Fermo e Ascoli.  Al rilancio di queste figure professionali e alla volontà di riportare i tomaifici in Italia si accompagna la battaglia, particolarmente sentita da Ciccola, per ottenere il marchio di origine obbligatorio, la battaglia sul «made in» che si gioca a Bruxelles.

Confidiamo nella sensibilità del nuovo governo verso quest’argomento e nella maggiore determinazione emersa all’interno di Confindustria nazionale“, ha poi affermato ancora il titolare di Romit. Nel frattempo, dalla sede di Confindustria centro Adriatico, Tosi si dice fiducioso sull’esito dell’istanza presentata al Mise. “Mi aspetto il riconoscimento. E anche la riduzione dei costi del lavoro, passo necessario per affrontare un problema concorrenziale sempre più marcato. Teniamo presente che da alcune nostre località calzaturiere stanno fuggendo anche i cinesi, perché competere è diventato impossibile”.

Un monito però arriva da un imprenditore del distretto, Enrico Paniccià, amministratore di Giano e licenziatario dei marchi La MartinaHarmont & Blaine e partner produttivo di Woolrich per le calzature. “Il riconoscimento dello stato di crisi può aiutare, ma non è la cura, non porterà ordini alle aziende. Ognuno deve capire i suoi punti di forza ed elaborare piani strategici per affrontare il profondo cambiamento in atto nel mercato”, ha affermato Paniccià. Una visione simile a quella di un’altra azienda dinamica del territorio, la Falc di Civitanova Marche (Macerata), dove opera la vice presidente nazionale di Assocalzaturifici, Salina Ferretti, che ha affermato: “I mercati sono cambiati, i prodotti sono cambiati e le aziende sono rimaste spiazzate. Sono certa che il settore saprà reinventarsi, ma non potrà più giocare con gli schemi utilizzati in passato”.

RED

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