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Cento anni fa i bolscevichi trucidarono la dinastia dei Romanov sciogliendone i corpi con 175 litri di acido

Nella notte tra il 16 e il 17 luglio 1918 lo zar Nicola II, la moglie Aleksandra e il loro cinque figli vennero uccisi a Ekaterinburg dai rivoluzionari bolscevichi.

Alle due di notte del 17 luglio, il funzionario della CeKa incaricato dell’esecuzione arrivò nella casa requisita al commerciante Ipatyev (dove i Romanov erano stati trasferiti in autunno) con un plotone composto da ex prigionieri austriaci convertiti alle idee rivoluzionarie. Lo zar Nicola II, la moglie Aleksandra, i figli Aleksej, Olga, Tatyana, Maria e Anastasiya furono riuniti in una stanza assieme al medico di corte dottor Botkin, alla dama di compagnia Demidova, al cameriere Trupp e al cuoco Kharitonov. Iniziò il massacro. I bolscevichi fecero fuoco ma non riuscirono ad ammazzare tutti i prigionieri. Le donne avevano cucito diamanti e altre pietre preziose all’interno degli abiti per nasconderle e i proiettili rimbalzavano, secondo il racconto del capo dei carnefici. Disse in seguito Yakov Yurovskij: “Dovemmo finire le donne a colpi di baionetta“. Poi, per sicurezza, un colpo di pistola alla testa.

I corpi furono portati nella vicina foresta di Porosyonkov Log per far sparire le tracce. Smembrati, bruciati, parzialmente sciolti nell’acido (utilizzarono 175 litri di acido solforico) per impedire l’identificazione. Yurovskij recuperò nove chili di gioielli dai vestiti delle donne e delle ragazze.

Dopo lo scioglimento dell’Urss del 1991, la città aveva da poco ripreso il suo nome di Ekaterinburg che per settant’anni era stato sostituito da quello di Sverdlov, il dirigente comunista che tanto aveva insistito per l’uccisione di tutta la famiglia imperiale. Negli anni Settanta Boris Eltsin, futuro presidente della Russia post-sovietica, aveva fatto abbattere, in qualità di dirigente locale del Pcus, la casa della prigionia perché il partito non voleva che diventasse meta del pellegrinaggio di cittadini sovietici nostalgici dello zarismo. Dei corpi non si era saputo più nulla, anche se gli uraliani parlavano spesso tra loro di quella foresta piena di acquitrini. Poi, con il crollo dell’Urss, lo storico Aleksandr Avdonin poté riesumare i corpi che aveva già individuato nel 1979. La prova del Dna confermerà poi l’autenticità dei resti.

Boris Eltsin decise nel luglio del 1998 di dare finalmente una degna sepoltura ai resti della famiglia imperiale. Dopo esami sul Dna, condotti anche grazie alla collaborazione di diverse famiglie reali europee (tutte imparentate con i Romanov, compresi i Savoia), la cerimonia avvenne a San Pietroburgo, che pure aveva recuperato il suo antico nome sostituito dai bolscevichi con quello di Lenin. Le salme furono interrate con una solenne cerimonia nella cattedrale di Pietro e Paolo sull’isola Zayachij nell’antica capitale fondata da Pietro il Grande. Erano passati ottant’anni dalla brutale esecuzione e ottantuno dai “Dieci giorni che sconvolsero il mondo“, secondo la felice definizione del giornalista comunista americano John Reed.

Nei giorni scorsi, in occasione del centenario dell’eccidio, il Patriarca ortodosso russo, Kirill, ha guidato una processione sino al monastero di Ganina Jama, nei pressi di Ekaterinburg, dove la Chiesa russa ortodossa crede che vennero sepolti i corpi dei Romanov. Non c’è stata invece alcuna commemorazione governativa. 

RED

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