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LE PROBLEMATICHE GIURIDICHE DEL “MADE IN ITALY”

Milano – Quando si parla di “Made in Italy”, il primo pensiero che viene in mente ai più è quello dell’identificazione dell’eccellenza proveniente e prodotta nel nostro paese. Ma dal punto di vista squisitamente giuridico, cosa davvero si intende, considerando che è diventato una vera e propria certificazione che attesta la qualità di un manufatto?

Se n’è discusso stamani nel corso di un interessante seminario tenutosi presso la sede del capoluogo lombardo della Camera di Commercio Italo-Russa, in collaborazione con alcuni professionisti della Logos Avvocati Associati avente ad oggetto le norme sulla tutela del “Made in Italy”, e del loro coordinamento fra l’ordinamento legislativo nazionale e quello comunitario.

Ne è uscito un quadro molto interessante, nel quale sono stati esaminati – in punta di diritto – aspetti spesso e volentieri sottovalutati e dati per scontato da parte di chi sta affrontando, o intende affrontare in futuro, il processo di internazionalizzazione. Quando invece il rispetto di ciò che le norme italiane prevedono affinché si possa davvero parlare di “Made in Italy”, sono la conditio sine qua non per poi poter affrontare non solo il mercato comunitario, ma anche quello russo. Così come la stessa questione dell’etichettatura (soprattutto per il settore dell’agroalimentare) pone problematiche, ben più complesse di quello che si possa pensare.

“Non esiste, nonostante l’emanazione della Legge 350 del 2003, una definizione vera di “Made in Italy” – ha affermato Fabio Brusa, della Logos Avvocati Associati –  allo stato attuale, anche se giuridicamente durante il Ventennio fascista, con la Legge Mussolini era considerato reato, millantare una provenienza non italiana. E questo perché si sapeva benissimo che la qualità delle nostre produzioni era infima. Oggi invece si è completamente capovolta la situazione, perché siamo in presenza di beni dagli elevati standard qualitativi. E dunque, anche da parte del diritto, c’è la preoccupazione di tutelare con maggiore incisività questa attestazione, nell’interesse esclusivo del consumatore. Ovvio che bisogna stare attenti a non cadere nell’eccesso opposto, ovvero nell’emanare provvedimenti di carattere protezionistico pur esistendo dei vincoli molto precisi posti tanto dall’articolo 517 del Codice Penale quanto dalla Legge 350 del 2003. Le maggiori problematiche indubbiamente le riscontriamo nel settore dell’agroalimentare, dove sono all’ordine del giorno i casi di “indifferenza della materia prima” in cui bisogna stabilire se il prodotto muta o meno le sue trasformazioni sostanziali. Si tratta di un sistema normativo un po’ balzano in cui ad esempio la bresaola della Valtellina, che come tutti sappiamo è un luogo geografico, può essere prodotta con carni di animali provenienti da Argentina o Brasile, e dunque non autoctoni. Il problema dell’origine della materia prima è sicuramente di non facile interpretazione e risoluzione. Quel che è certo è che non possono essere applicate le norme interne che siano in contrasto con la normativa comunitaria che rende obbligatoria l’indicazione precisa del paese di provenienza e di origine, per garantire gli interessi dei consumatori”.

La presenza di pratiche commerciali scorrette è un altro aspetto da considerare, in virtù della presenza dell’Autorita’ Garante per la Concorrenza ed il Mercato che può intervenire in certi casi anche con pesanti sanzioni. E ciò a volte può creare dei contrasti con una normativa che magari è meno stringente, rispetto al dettato normativo dell’AGCOM.

“Il Made in Italy è un concetto che preso così, lascia intendere qualcosa di buono  anche non è solo un’identificazione di origine geografica come può ad esempio essere il Made in Germany o il Made in France – ha sottolineato  Antonio Prade dal momento che si tratta di un qualcosa che oggettivamente definisce le qualità dei nostri prodotti. Oltre che l’espressione di uno stile particolare che esplicita un’aspettativa positiva da parte del consumatore finale, che in esso riconosce i concetti di bellezza, fantasia, qualità e creatività italiani. Su ciò si è anche pronunciata la Cassazione che lo considera alla stregua di un marchio con una sentenza del 2007 – mai stata messa in discussione – che traccia i connotati del Made in Italy. Il marchio “Made in Italy”, dice la Cassazione, non è solo un marchio che tutela le produzioni italiane ma si riferisce anche a quelle produzioni che, in parte delocalizzate, trovano il proprio elemento qualificante nelle caratteristiche che ad esse sono conferite dal produttore italiano. Una definizione che non riguarda solo ovviamente le produzioni che sono state realizzate in Italia, ma anche quelle in cui l’elemento qualificante in ogni modo è italiano. Quindi l’aspetto geografico, alla luce di questo pronunciamento, diventa secondario. Un’altra sentenza che ha spianato la strada alla congiunzione fra il concetto di “Made in Italy” e di “fatto in Italia” è quella in cui in primo grado, davanti all’allora Pretore di Torino, la FIAT di Giovanni Agnelli, ai sensi dell’art. 517 del Codice Penale, fu accusata di un utilizzo mendace dei segni industriali di evocare un qualcosa di italiano, con una produzione fatta in Polonia. Fu successivamente stabilito dal Tribunale di Torino che non ci poteva essere danno al consumatore perché anche se le auto non erano prodotte agli stabilimenti di Mirafiori, comunque c’era la garanzia che gli standard, l’evoluzione produttiva e le schede tecniche erano quelli normalmente utilizzati dalla FIAT. Non poteva esserci truffa ed inganno al consumatore, e fu così “svalutato” l’aspetto territoriale a prescindere dalla delocalizzazione geografica utilizzata dalla casa automobilistica. Dobbiamo dunque tenere presente i concetti di origine, provenienza e – in materia di diritto doganale – di origine doganale preferenziale e non preferenziale. Sull’origine, si intende l’indicazione del luogo in cui la materia prima è nata, mentre per quel che concerne la provenienza è l’ultimo stabilimento nel quale il prodotto è stato lavorato. Sulle merci importate dai paesi esteri, va fatta la distinzione fra prodotti di origine doganale preferenziale per i quali valgono le agevolazioni sulla scorta di specifici accordi fra l’Unione Europea ed i singoli paesi. Rispetto a quelli di origine non preferenziale, in cui si fa riferimento ai luoghi in cui i prodotti abbiano subìto un’ultima lavorazione sostanziale. Può essere definito come prodotto di origine italiana, se nel nostro paese ha subito una trasformazione sostanziale, indipendentemente dalle percentuali della merce italiana utilizzata per produrlo. Tutto ciò trova poi espressione normativa nella legge 350 del 2003 che identifica le fattispecie di “falsa” e “fallace” indicazione, prevedendo la punibilità e l’applicazione di sanzioni ai sensi dell’art. 517 del Codice Penale. La “falsa indicazione” si ha quando c’è la stampigliatura del Made in Italy, violando però la normativa europea in materia di origine, mentre c’è “fallace indicazione” invece se ci sono dei segni che possono essere in grado di trarre in inganno il consumatore”.

Sugli aspetti del diritto doganale, si è incentrata la relazione di Beatrice Brusa che ha enunciato i regolamenti comunitari che sono alla base della libertà di circolazione di beni e servizi all’interno dell’Unione Europea. “In merito alla trasformazione sostanziale, ovvero quella che attiene ad un bene prodotto con la collaborazione di due paesi, ricordiamo – ha osservato – che è necessario che sia economicamente giustificata, affinché non possa parlarsi di violazione delle norme sull’origine non preferenziale. Per rendere meglio l’idea, ad esempio, un vestito – affinché possa godere delle agevolazioni daziarie – il tessuto di cui è composto dev’essere prodotto e lavorato in Italia, e non solo confezionato”.

Francesco Montanino

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