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GLI ECONOMISTI FRANCESI DICONO CHE LA RUSSIA NON E’ UNA POTENZA ECONOMICA

Milano – La Russia è una potenza nucleare. Perché non è una potenza economica? L’anno scorso, il PIL del paese ammontava a circa 1600 miliardi di dollari, meno dell’Italia, meno di quello del solo stato del Texas. Né la sua ricchezza sta crescendo: Il PIL della Russia nel 2017 è stato inferiore a quello del 2013 a prezzi costanti. Come mai? Se lo è chiesto il sito americano Quartz e per rispondere ha preso spunto dal recente rapporto di Thomas Piketty, Gabriel Zucman e Filip Novokmet sull’ineguaglianza economica in Russia dal 1905 al 2016.

La notizia del rapporto di Piketty & c. è stata riportata proprio oggi anche da “Milano Finanza“, uno dei principali media economici italiani, che ha pubblicato i dati dell’economista francese elaborati con altri due autori e che hanno compiuto uno studio sul bilancio pubblico russo, il cui Pil è più o meno come quello italiano. Sempre secondo questo studio, rispetto all’enorme surplus commerciale realizzato, ci sarebbe un buco patrimoniale pari al 300% del Pil.

Gli oligarchi emergono nell’analisi come una parte essenziale dell’apparato di Putin. La loro ricchezza proviene direttamente dalle riserve del paese e, di fatto, dalle tasche del popolo russo.

Secondo i calcoli del rapporto di Thomas Piketty  , la Russia dovrebbe risultare molto ricca. Ha una grande quantità di risorse naturali: petrolio e gas, ovviamente, ma anche carbone, cereali, prodotti ittici e vaste riserve di minerali. Aveva esportato poco sotto il regime sovietico, ma la situazione è cambiata rapidamente dopo il crollo del 1991.

Tra il 1993 e il 2015, la Russia ha esportato in media circa il 10% in più ogni anno rispetto alle importazioni. Ma quanto il surplus commerciale sia economicamente sano dipende dall’uso che se ne fa. Quando le nazioni e le imprese gestiscono un avanzo commerciale, devono trovare un modo redditizio per usare il denaro proveniente dall’estero. Un modo utilizzato è accumulare ricchezza all’estero, in genere sotto forma di investimenti diretti o acquisto di partecipazioni in società estere o facendo prestiti a stati o società stranieri. Le banche centrali della Cina e di altri paesi asiatici, per esempio, hanno negli anni investito in titoli di stato americani, mentre le società tedesche spendono molto dei loro surplus commerciali per la costruzione di fabbriche all’estero. Nel tempo, quelle ricchezze d’oltremare si accumulano, creando un flusso costante di reddito.

E la Russia? Secondo lo studio dei tre economisti, se si sommano oltre vent’anni di surplus delle esportazioni, i suoi investimenti netti all’estero avrebbero dovuto essere enormi, pari a circa il 230% del Pil senza tener conto degli interessi e dei rendimenti ottenuti, che a loro volta avrebbero dovuto produrre altri investimenti.

La maggior parte di questa ricchezza, tuttavia, non compare nei libri contabili ufficiali della Russia. Secondo i calcoli degli economisti, nel 2015 il suo patrimonio netto ufficiale all’estero, ovvero il valore di ciò che un paese possiede all’estero meno il valore dei beni russi di proprietà di stranieri, ha raggiunto appena il 26% del reddito nazionale.

La semplice matematica implica che una quota di tali eccedenze accumulate, pari a oltre il 200% dell’attuale reddito nazionale russo, è scomparsa. Aggiungendo i costanti rendimenti annuali che si sarebbero probabilmente ottenuti con questi investimenti, gli economisti hanno stimato che il totale della ricchezza russa all’estero che non figura nella contabilità nazionale è pari o superiore al 300% dell’attuale pil russo. Che ne è stato di tutto questo denaro?

Miliardi mancanti. Gli economisti sostengono che gran parte del denaro mancante è stato probabilmente incanalato fuori dal paese attraverso transazioni offshore, che non compaiono nelle statistiche pubbliche ufficiali. A mettere in moto questo processo, ricordano i tre economisti, fu la rapida privatizzazione che seguì la caduta dell’Unione Sovietica: i beni dello Stato furono venduti a prezzi stracciati e quelle che erano vaste risorse pubbliche sono state concentrate in relativamente poche mani private.

Ma questo andazzo non si esaurito: anzi, lo spostamento di ricchezza verso l’offshore è continuato nei decenni successivi. Utilizzando un insieme di dati ufficiali disponibili, i tre autori dello studio stimano prudentemente che al 2016, la ricchezza offshore sia circa tre volte più grande del patrimonio netto ufficiale di attività estere della Russia. In altre parole, aggiungono, “c’è più ricchezza finanziaria detenuta dai ricchi russi all’estero (nel Regno Unito, in Svizzera, a Cipro e in altri centri offshore) che ricchezza posseduta in Russia dall’intera popolazione“.

Parte di questo denaro potrebbe anche essere stato reinvestito in Russia. Gli autori interpretano i dati disponibili per suggerire che una quota pesante di ciò che viene contabilizzato come passività verso stranieri siano in realtà di proprietà di russi, simulati attraverso i conti offshore.

Il contrabbando di capitali offshore, se non è reinvestito nella capacità produttiva russa o tassato per finanziare programmi socialmente vantaggiosi, non va certamente a vantaggio dei 144 milioni di non-oligarchi russi. Né è equa la distribuzione della ricchezza all’interno del paese.

Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, la quota di reddito nazionale attribuibile al 50% della popolazione con il reddito più basso è crollata. Forse non è sorprendente, data l’iperinflazione e la disoccupazione che colpirono l’economia in quegli anni caotici. Ma la persistenza di questo spostamento della distribuzione del reddito è altrettanto sconcertante.

Come è successo? Secondo i tre economisti, l’ampia portata della privatizzazione post-sovietica è stata senza dubbio un fattore enorme, così come l’iperinflazione negli anni successivi. Ma il governo russo ha trasformato questa perturbazione in uno status quo. Si prenda per esempio, la politica fiscale della Russia. I russi pagano in tasse solo il 13% del loro reddito, a prescindere da quanto guadagnano. Le successioni ereditarie non sono tassate per niente. La disuguaglianza in Russia non è necessariamente una cosa post-sovietica; gli economisti notano che i livelli di disuguaglianza in Russia sono molto più alti che in molti paesi dell’Europa dell’Est, anche essi un tempo comunisti.

Putin, che gestisce il paese dal 2000, è in non piccola parte responsabile nel consentire che questo flusso di ricchezza transiti, offshore e onshore, nelle mani di pochi. In fondo, questi investimenti negli oligarchi rendono bene, se si pensa alla capacità acquisita di sabotare la democrazia liberale grazie alla fedeltà degli ultra-ricchi russi. Gli oligarchi sono stati collegati a molti dei recenti sforzi del regime russo di minare le elezioni dei paesi occidentali, in particolare negli Stati Uniti.

In termini di benessere del popolo russo, tuttavia, la leadership di Putin è stata fin qui disastrosa, conclude Quartz, se alle politiche di distribuzione della ricchezza si aggiungono le sanzioni internazionali che queste macchinazioni geopolitiche hanno provocato.

L’opinione pubblica russa non ha ancora chiesto conto a Putin della sua plutocratica scommessa. Come concludono gli economisti, “l’estrema disuguaglianza sembra accettabile in Russia, purché i miliardari e gli oligarchi continuino ad essere fedeli allo Stato russo e ai suoi apparenti interessi nazionali“. Ma si tratta, aggiungono, di un “fragile equilibrio“.

RED

 

versione articolo in lingua russa

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