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DOPING: NON PUO’ ESSERE UN PROBLEMA SOLO DEL TENNIS O DELLA SHARAPOVA

Il 2016 del tennis non è iniziato nel più felice dei modi. Prima il caso scommesse, rilanciato dalla BBC in concomitanza con l’Australian Open. Poi la conferenza stampa a sorpresa di Maria Sharapova, un evento che è riuscito ad Maria-Sharapova-Tennisoltrepassare le previsioni pessimistiche di chi ipotizzava l’annuncio di un ritiro da parte della russa. Non era un addio, era l’ammissione di una negligenza che l’ha portata a fallire un test antidoping durante il primo Slam stagionale. Tutta colpa di un farmaco come il meldonium, illegale dal primo gennaio. Qualche tempo fa, avevano fatto notizia alcuni estratti dall’autobiografia del ciclista Mark Cavendish. Che, nel suo “At speed”, se la prendeva con la discrepanza tra il modo in cui il ciclismo e gli altri sport combattono il doping. “La federazione internazionale del tennis ha approvato il passaporto biologico soltanto nel 2013 – si leggeva – con cinque anni di ritardo rispetto al ciclismo. Nel 2011, il tennis ha effettuato soltanto 21 controlli sul sangue al di fuori dalle competizioni, contro i 4613 del ciclismo. Leggi questi dati, poi senti dire ad Agassi che il tennis ha sempre aperto la strada nella lotta al doping, o Marion Bartoli sostenere che il doping non esiste nel tennis. Come possiamo essere sicuri di qualcosa, quando Lance Armstrong ha sostenuto più di 100 test in oltre un decennio e non è mai risultato positivo? Mi è venuto il nervoso quando ho sentito dire da Tim Henman che i tennisti possono recuperare da una partita di cinque set facendosi una flebo. Ok, va bene, nel tennis è legale. Ma nel ciclismo è una pratica vietata”.
All’interno del movimento tennistico, però, non sono mancate alcune voci dissonanti. Una su tutte, quella di Re Roger. Che, probabilmente infastidito dal caso di Victor Troicki (nel 2013 non si sottopose a un test del sangue durante il Master di Monte Carlo), non fu tenero: “Penso che sia fondamentale lasciare un campione quando te lo chiedono, perché in quel momento sei davanti ai delegati e non puoi scappare. Mi fido del sistema, ma nel 2003 mi hanno sottoposto a 25 test. Poi sempre meno: nell’anno in cui ho vinto Rotterdam, Dubai e Indian Wells nessuno è venuto a controllarmi”. Parole che confermerebbero la debolezza del tennis nel braccio di ferro della lotta al doping. Se però dobbiamo risalire cronologicamente al momento in cui questo rapporto è entrato in crisi, non possiamo non riferirci alle rivelazioni fatte da Andre Agassi nel suo “Open”. Un libro in cui, fra le altre cose, l’ex tennista rivelava le vere motivazioni della sua lontananza dai campi nel 1997, quando giocò soltanto 24 partite. Agassi spiegò di essere stato contattato dall’ATP, che gli comunicò di essere risultato positivo alla metanfetamina. A lui, all’epoca dei fatti, bastò dichiarare l’utilizzo casuale della droga ricreazionale per cavarsela senza che nessuno venisse a conoscenza della sua positività. È come se, da quella confessione resa pubblica nel 2009, la credibilità dell’intero movimento fosse stata messa in pericolo. Il resto, lo hanno fatto episodi rocamboleschi come quello di Richard Gasquet, positivo alla cocaina nel 2009 ma capace di scagionarsi grazie alla tesi secondo cui la droga sarebbe entrata nel suo organismo per via di un bacio ricevuto in discoteca da una donna. In totale, si parla comunque di 38 casi di doping nella storia del tennis professionistico. Anche per questo, in molti storcono il naso. La diversità del caso Sharapova, però, ci obbliga ad ulteriori riflessioni. Non sulla sua innocenza o sulla sua buonafede, quanto su ciò che comportano alcune frasi della stessa russa. La tennista ha ammesso di aver assunto addirittura dal 2006 il Meldonium, il tutto per problemi di salute. Quali? Carenza di magnesio, risultati irregolari nei test cardiaci e prime avvisaglie di diabete. Prendiamo per buona l’ammissione di Masha, ok. Ma non possiamo dimenticare alcuni dati di fatto, tra cui le motivazioni che hanno portato la WADA a proibire il farmaco dopo 18 mesi di test ufficiali. La principale? L’analisi di 8300 campioni di urine raccolti durante test antidoping anonimi tra atleti di ogni tipo aveva rivelato la presenza di Meldonium nel 2,2% dei casi, ovvero il doppio rispetto ad ogni altro tipo di farmaco. Una presenza troppo ricorrente, al punto da insospettire i vertici dell’Agenzia Mondiale Antidoping, che ha visto in questa percentuale una prova indiretta del fatto che la sostanza fosse utilizzata per migliorare le prestazioni. Una volta, abbondavano gli atleti asmatici. Adesso, quelli con avvisaglie di diabete. Un motivo in più per credere che limitare il problema del doping al tennis o attribuire colpe singole ad una atleta di fama mondiale come la Sharapova, sia soltanto il modo migliore per evitare di risolvere la questione che è molto più ampia e complessa.

(fonte: Eurosport)

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